SCHIZZI POETICI PER APPUNTI D’ARTISTA


  

  

Sì — Ti salga pure
dall’anima
quel filo
sottile
di malinconia.
Ti sia dolce.
E segui la tua vita
segnata da fratte
di rovo.
In fondo si accende
il faro della tua luce.
A paro a te
cammina la trama
d’un sogno.
Ti segue il sogno.
E l’anima è desta.
Ascolta la tua voce.
Festosa come tinnula
campana che suoni
per sagra.
È lieta.
Ché sente un germoglio
di fiori e
una festa di sole
ne la tua vita.

La tua vita!
Il sogno la rabesca
di filate
d’oro —
di ragnatele di luce —
di tirate lente e lunghe
di canzoni —
mormorate a piana voce —
stancamente — in una sera
di luna —
Fonda —
Densa di desideri
accorati
come di profumi
e di stelle —
Pendule —
come stille
di pianto.
E ti senti accanto
la poesia del tuo sogno
che non avrà più fine
di spasimo.
— Data sconosciuta
Tu insegui un vano
pensiero di poesia —
   e lontano
ti porta questa tua fantasia
cui la foga
non piega
alcun freno.
   Poesia si nega.
Altra cosa che fugge —
che invano
tu tenti afferrare
nel volo — cui tendi
invano
la rete a brandelli
del tuo pensiero,
ch’è stanco.
L’hai pieno di sogni.
Popolato l’hai di chimere.
Un bianco
stuolo
di fantasmi
in esso s’agita.
Gettato v’hai
gli incantesimi
di tutte
le notti lunari.
Tutti i profumi
stillato v’hai
delle lontane
primavere in fiore.
V’odi cantare
fontane.
V’ascolti salir
di voci
di folla che mormora.
Vi scorgi una molle
corolla,
schiusa nel fondo.
Tante, tante cose
tu senti
e tu vedi.
   Poi tutto crolla,
si sfascia
in frantumi
di mille colori —
come di bolla lucente
che scoppia
sfiorata da un’ala.
Smuore la vena,
      S’accascia la fantasia.
Ti senti un anelito
come di corsa sfrenata
in regioni
lontane.
Rimani muto. Ti coglie
l’oblío
delle cose nascoste
intraviste appena.
      Ritorni saggio
poi ché lasci
      le rose ai roseti.
— Data Sconosciuta
Non ti guardare.
Non insidiarti col sospettare
te stesso.
Tu non puoi sorprenderti, poiché —
in fondo — anche tu sei buono.
     La tua veste è tale da
renderti cattivo anche agli occhi
dei più vicini al tuo cuore.
     Troppo ti sei formato
in un’aria di finzione e di commedia.
Tua volontà ti fece esperto nell’usare
armi che non sono per il tuo pugno.
Gli altri li inganni.
Però non riuscirai a ingannare te stesso.
Mai.
Ti senti già scoperto in molti punti.
E tremi.
Ma non devi tremare.
Sei forte.
E ci sono ancora, per il mondo, i buoni.
Quelli che non sapranno ridere di te
come altri risero.
     Tu li vincerai.
Forse
li ricondurrai verso regioni
di purezza.
     Sarà giorno di gioia
Quello che ti vedrà col tuo vero
sorriso.
— Data sconosciuta
La tacita sera
volge lenta alla notte
e ancora un ricordo di sole
indugia sulla nube sottile
che rincorre il giorno
fuggente oltre i monti,
incontro agli uomini
che si destano.
A noi il sonno
pietoso verrà
con l’illusione di sogni,
e i faticosi pensieri
i deliri
le inappagate seti
si placheranno
negli immoti stagni
di una esperienza di morte.
— Data sconosciuta
La notte uccide le voci.
Si sfascia il cielo
e crollano le stelle
in un mare
d’attesa.
Un fuoco d’artificio
di pazzie
si accende nel mio cuore:
Dio, dammi un’ora di sosta
nel cammino!
S’alza oltre il colle
la luna
là, dove si coricò
l’ubriaco sole.
Il crisantemo pallido
piange i suoi petali
sui cristalli lividi.
— Data sconosciuta
Non c’è luce di vero
in questo muovere
faticosamente
verso la riva di sogni
fatti di nulla.
All’impossibile approdo
l’unghie non hanno presa
e nel cuore l’anelito
alla meta intoccabile
si rinnova
con la pena del batter vano
che il desiderio
aveva vestito di universo.
— Data sconosciuta
Io non so se sia la mia vita al suo termine oppure all’inizio. Un altro inizio. Poi che credo si rinasca, morendo, ad una vita nuova e migliore. Più equilibrio credo che regoli al di là la vita degli uomini e maggiore una dose di bontà e di pietà la infiori.
Qui l’odio e la tristezza. Di là il sorriso e il perdono.

Presto — non passeranno due lune —
sarai un uomo di venticinque anni.
Il peso greve di affanni
e di tediose cure
e di tormento
e di represse ire
di ringoiato rimpianto
ti sembrerà più lieve.
Ancora un anno de la tua breve
esistenza sarà passato.
Un anno di meno da vivere.
Di un anno ti approssimi
alla morte.
Alle sue porte ti senti
di un anno più vicino.
Pur dicono che non dovresti
desiarla tanto la morte.
Dicono ti sia buona la vita,
e bella.
Ma la tua sorte è dura.
Ma più forte
una voce ti dice le tristi cose
che l’anima non ti regge più
che l’anima più non raccoglie
tanto
piena è d’amaro.
Un’ansia orrenda
a stento il petto raffrena.
Ansia di morte.
Torva la mente si chiude
in un’attesa muta di pace —
l’anima
anch’essa si tace —
anch’essa attende.

La luna in un suo lento —
uguale—
eterno volgere verso una mèta
non tôcca mai
guarda da millenni
gli uomini ridere, piangere —
nascere morire —
e mai cessa di andare.
    E va — E guarda —
e vede le amare
mie fedi spente
le morte cose dell’anima —
né si attarda
né sosta
ma va — silente —
gelida, bianca —
eterna —
Per lei c’è l’universo
e Dio.

Di un suo raggio s’illumina
una tremula lacrima
nascente su ciglia avare di
pianto.
E passa. Si disfà il raggio
s’allunga su l’arsa gola e si spegne.
    Monta la luna nel cielo terso.
La seguo nel suo lento andare —
e mi perdo.
    Più alcuna cosa vedo
che il cielo e Dio.
— Ascoli, 1925
Io non t’amo — vedi — non t’amo.
Se m’urge al labbro un bacio disperato
è perché è sola l’anima insaziata
e vuol compagna dolce che l’acqueti.
Lo so — sulle tue labbra ferma
è la parola che giammai fu detta
né a disserrar le labbra tue, mi valse
del cuor la fede — oh, ringoiate lacrime!
Quando? Quando dimenticare
potrò senza morire l’aspro sapore
dei baci tuoi negati e poi donati
e poi negati ancora? Quando potrò?
— Data sconosciuta
Fanfare di luce
e brevi pause d’ombra
appese ai contorti steli
delle odorose conifere.
Ratto svolare di farfalle
voci lontane e piane
sotto l’azzurra sonnolenza del cielo.
Calida e greve l’aria.
Immota l’anima e tardo il pensiero.
Mezz’agosto.
— Data sconosciuta
Stagioni, ore cadenti dell’eternità,
che inseguite il tempo
e segnate per gli uomini,
sulla traccia di memorie
impregnate dei vostri climi,
il cammino verso l’ultimo crepuscolo;
stagioni, io amo di voi
le faticose giornate dei trapassi,
nelle quali il passato
lotta angosciosamente
col divenire che indugia
nelle atmosfere ambigue
dell’oggi con la memoria dell’ieri.
Stagioni, in voi si accende
la nostalgia delle occasioni mancate
e s’illumina di verità
il sogno delle ore che non sono nate.
— Data sconosciuta
  

  

Scialbo scheletro d’albero
che ti annulli
nel crescer di un fumo di nebbie
e diventi cielo,
in te ritrovo il senso
della vita,
i cui sogni si spogliano
di incanti
come i rami di foglie,
e tutto annega,
giorno su giorno,
memoria su memoria,
nell’incalzar del tempo.
È bello annullarsi,
lasciarsi bere
dal cielo.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
Un grasso colombo,
stupido e pavido
come un giovane borghese
innamorato,
passeggia sul tetto
persuaso che i fiori
selvatici e le gramigne
fremano di piacere
allo spettacolo della sua morbida
bellezza.
Le bocche di leone e le gramigne
ignorano il grasso colombo
e trepide affidano
al venticello di primavera
la segreta ragione
di un sottile gaudio
che è nutrito di sole
e d’aria
e di vapori trepidi
e profumati di salmastro.
S’io potessi, come le gramigne
del tetto o i fiori selvatici,
godere l’inesprimibile dono
di questa primavera
già contagiate di estate
e morire un poco
ad ogni ora
nell’estenuante andare
della stagione al declino!
E dimenticare di me
la vanità il tempo le deluse fedi
e degli altri
l’inganno dell’amore mentito
o la ripulsa avara
che chiude la via
alla consolazione
del sogno.
— Data sconosciuta
Assunti dalla memoria,
Senza tempo
e senza condizione,
tornano i volti
delle donne che amai
e di quelle che —amanti—
non riamai.
Ma non hanno voce
e stento a leggere
in ognuno d’essi
i segni dell’antico
incanto
che la memoria
non sa richiamare.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
Denti per mordere.
Catene per catenare.
Artigli per uncinare.
Corde per fustigare.
Spine per coronare.
Lagrime e pianto.
Pianto e lagrime.
Urlo di pena che resta.
Strazio di carne ferita —
ferita che unguento non sana.
Ruggito di belva che muore,
vagito di bambolo in fasce
che ignora la vita.
Immagini opposte e nemiche
del mio pensiero un po’ guasto.
Angoscie del lembo rimasto
del cuore moncato.
Mani per carezzare.
Labbra per baciare.
Occhi per adorare.
Cuore per amare
anima per sospirare
senso da consumare
nel desiderio che non si placa.
Voi siete la mia fortuna.
La mia fortuna siete
ch’ha per custodia un forziere
di tormento senza mai posa.
— 15/2/1919 — di notte
Una pesta bautta. Un velo —nero—
un sentor moribondo
d’ambra —e un rimpianto di lontana
cosa perduta—
Larve disfatte
di ricordo antico,
ch’io fermi in voi l’immagine
remota.
E mi sovvien d’un volto
ch’io non vidi
—che pena!—
e di piane parole mormorate
di ladre labbra d’un amante
ignota.
Cela il volto la maschera
ma svela
luci d’anima
pe’ fori accesi di brevi scintille
di riso.
“T’amo. Ti voglio.
ma che tu non sappia
non sappia mai di me
il volto e il nome.
Come in un sogno breve
l’amante passa
e mille volti e mille nomi
in uno
assomma — il solo
che sogneremo eternamente —
Passar passare
ed eternar nel sogno —
a le tue notti —
l’immagine ignorata.”
Disse. Ed amò.
Donò di sé nell’ora breve
quanto amor non ebbi
mai.
Poi più nulla. O qualcosa
che le mani
ladre divelsero al fantasma
dell’amore.
Un velo nero —un sentor
d’ambra
e il cavo calco
d’un volto ch’io non vidi.
Un fragor di tuono
a le orecchie
e un franar di stelle
su le pupille disperate
fisse a cercare il volto dell’amore.
— Data sconosciuta
Te — Centauro — la nube genitrice
scagliò dal cielo, in sonora
corsa, su le battute strade
de l’infinito.
Te dominava la furia
di pingui prede,
strappate al mistero d’antiche
selve. Te, aduso a le lotte
selvagge e ai canti di vittoria,
vinse un magato inganno.
Io nel tuo segno ebbi vita,
e al predare e a le lotte
addestrar mi piaceva
l’anima, e a le corse pazze
verso soste lontane.
Tal come a te l’insidia
tesse per me, magato,
il drappo della follia.
Me non vince. Libera l’anima
adergersi nell’aria verso la
madre nube assisa in cielo.
Seco, nel grembo, ritorno a l’infinito,
bevo linfa d’azzurro
e m’addormento,
dimentico e placato.
Sola in cielo — la nube
che a l’orizzonte
sfioccasi in caligine —
verso la terra e il male
dove rinascerò
domani.
— Data sconosciuta
INCANTESIMO
Attorno a te vo’ tessere una rete
fitta e tenace da le maglie d’oro
tutta tramata di sogni e malìe
di belle fole e canzoni d’amore.
Antichi miti vo’ resuscitare
favoleggiate gesta di creature
cui vita e sogno seppero foggiare
alme di Dei, parvenze di mortali.
Farti prigione io vo’ de la mia ragna
tessuta d’oro, di malìe tramata
ove, come su fili d’arpicordio,
agili dita traggon melodie,
zefiri azzurri tessono canzoni.
Ne la gabbia canora in un batter d’ala
anelo d’orizzonti sconfinati
s’affannerà su le pareti d’oro
sino a che un magico gioco di parole
sussurrate e non dette — come un fiore
sbocciar farà il miracolo d’amore.
Cessa l’ala di battere — l’anelo
di libertà desìo più non ti rode.
Perdutamente — le pupille smorte
fisse a l’incanto d’immortali forme
per te resuscitarte dal mistero
di lontane memorie — le canzoni
ascoltando di parole non dette –
in rapito abbandono — tra le braccia
forte serrar de la prigione d’oro
vorrai l’artiere. E de la fantasia
tutti i sogni sognati e non sognati
l’ordito serran de le maglie d’oro.
Musica i baci — musica i sospiri —
Acceso folgorar di raggi d’oro —
La prigione tramutano in giardino
Folto d’aiole dai purpurei fiori.
È legata d’un bacio la memoria.
Rondine folle — rondine irrequieta —
Per te ho tessuta la mia ragna d’oro.
— Estate dell’anno 1934
  
Distese sul bruciato arenile,
prone e invereconde,
callipigie dee senza altari,
ringoiano le bave
di non confessati desideri
e spiano caute
i passi
di adolescenti tremebondi,
i cui cuori
rullano come tamburi.
— Data sconosciuta
Occhio di Ciclope annoiato,
una sola finestra
sulla parete grigia
dall’intonaco gobbo,
specchia — tra le sbarre quadre
di una sottile inferriata —
un malinconico cielo domenicale
senza colore.
In un canto della strada deserta
un gatto diteso sul fianco
segue pigramente
il volo di un moscone impazzito.
Dietro i vetri della finestra sbarrata
i grandi occhi della collegiale pallida
spiano il senso delle cose
che — immote — aspettano,
dopo l’angoscia crepuscolare,
l’appagamento della notte.
Al di là delle sbarre le cose
hanno senso di vita
e al di qua la morte
intorbida il pensiero
impazzito — come il moscone —
in un volo senza soste
e senza meta.
— Data sconosciuta
Sgomento (xylografia per la poesia omonima, 1925)

Sgomento (xylografia per la poesia omonima, 1925)

Vidi una notte (non era nel sogno)
risorgere a vita — destata da possente soffio
d’Iddio ignoto —
Venere Anadiomene —
Seguia la pupilla — smorta
nell’ansia del desiderio
non spento e non saziato —
la curva dei fianchi,
purissima — dei seni
il fiore, dischiuso appena —
né mai — a ricordo di mia memoria —
sentii più impetuoso
correr le vene il sangue —
Su le sue labbra
(purpureo sorriso aperto
sul ferino sfilarsi di
perle candide, l’una
a l’altra serrata, dei suoi denti)
fiorivan baci non scoccati —
Nel cielo buio delle sue pupille
tremavan luci
e scintille —
come stelle
accese di un subito
e più presto spente —
La sua chioma densa ricadeva —
pesando come la sua massa
oscura, sul biancore
abbacinante della sua pelle
di raso —
Un vivo agitarsi
di viperette nere
correva le sue spalle — talché
le mani — indugianti a lungo
sul tepore della sua carne —
spesso si ritraevano trepide
del contatto stranamente
gelido e sfuggente
dei suoi capelli di Medusa —

Poi che la mirabile creatura
fu mia (ardeano ancora
i sensi di desiderio e di febbre)
l’occhio (non pago anch’esso)
le corse ancora —
golosamente —
Oh! meraviglia!
(non era nel sogno)
la creatura mirabile — risorta
da un lontano passato —
fatta — per virtù di miracolo
carne viva dal masso
dello statuario di Atene —
la creatura mirabile aveva
un cuore —
Lo vidi (fo sacramento
che gli occhi miei
non mentivano) lo vidi
battere sotto il raso
della sua pelle —
sommessamente battere —
segnare un ritmo
di palpiti affrettati
come per corsa sfrenata —
E — dunque — aveva anch’essa
un cuore —
Un cuore coi segni
di una segreta ansia
di bene —
con una reale vita
di spasimo —
con un disperato desiderio
di dolcezza —
con un segnato destino
di dolore —
    Venere Anadiomene
anch’essa portava seco
il suo presagio d’angoscia —
    Un nascere
di sogni —
un vanire —
un finire—
un morire —
— Ascoli, nella primavera del 1925
Rondine di breve vita
nel meriggio ardente
saettavi l’aria
perdutamente.
Ridevi e stridevi
all’azzurro
all’odor dei tigli
al polverio d’oro.
Poi l’urto
sul parabrezza
abbagliante
e la caduta a piombo
sotto la ruota
che macina l’asfalto
e la tua vita.
— Data sconosciuta
PERIFERIA
Trema nell’aria un presagio
di odor di tiglio.
In cielo cristallizzate fantasime
di sfioccate nubi d’estate
pregne di calura e di noia.
Risorgenze di aboliti giorni
in voci pese e sonnolente,
esalanti dall’anima
come da una bara i miasmi
della decomposizione.
Il viandante tenta l’asfalto
in un ritmo da rallentatore
e cerca la cicala accidiosa
entro la frasca dell’ippocastano,
oltre la siepe bruciata
c’è la carogna d’un cane
ronzante di tafani.
— Data sconosciuta
Cade la dolce ora
per la quale rendi grazie
a Dio
d’essere.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
Nei silenzi
la presenza di Dio.
Ma, o Dio,
come è avara
la vita
di silenzi!
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
  

  

Ti bacerò come si bacia
la morte
se si è stanchi.
Ti stringerò la mano
come il bimbo alla madre
se ha paura.
Carezzerò i tuoi seni,
dolcemente,
e ti farò mia sposa.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
  

  

Divenire cautamente nel tempo,
arrestarsi alle soglie
dell’ultima stagione,
con lo stupore
di un fanciullo ingannato
e il disperato candore
di un poeta
senza canto.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
  

  

La tua voce opaca
sembra — tanto è scura —
generata dalla notte
che già serpeggia
nei vicoli
e s’annida
nella frasca bassa
degli orti.
Ma non parlare.
Con le tue dita
serra le mie palpebre
così ch’io veda —
da cieco —
il gusto e il senso
dei tuoi baci.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”

  

Pure se canti —
pure se nel canto
ti accori
in tirate che sanno
di pianto —
pure se canti
come a notte di estate
canta una voce lontana
nell’ombra — e tu senti
fiorirti nel cuore
una deserta ansia di bere —
pure se canti
la tua pena
resta.
Non tregue conosce
lo spasimo
che s’accoglie
al tuo core d’intorno.
Né mai si arresta di battere
il cuore
un rapido ritmo di corsa
verso una mèta
fuggente.
Sempre domani.

Tanti domani corsero —
ed ancora
domani
ti aspettano.
Quanti?
Hai tu sete di baci?
E tu attendi.
Ti sazi di amaro.
Hai tu fame di bene?
E tu attendi.
Ti sazi di stenti.
Hai desiderio
di sogno
che plachi?
E tu attendi.
Ti sazi di folli tormenti.
Bisogno tu senti di pace?
Domani.
Domani e domani.
Sempre.
Quando?
Tu segni una data:
—Domani—
— 12/2/1919
Plenilunio


Plenilunio

Il polline che ti feconda,
sogno torbido di tutte le mie notti,
è intriso nel sangue
e l’inquieta anima —
che bevve alle fonti dell’illusione —
s’avvelena dell’acre suo profumo di morte.
Dove un giorno vidi dunque
la verità e quando il sogno
si generò
alle pure fonti del bene?
Ho nella memoria il ricordo
del rosso aquilone
sul quale viaggiavano
I sogni e le fedi
del fanciullo che uccisi
e il cui sangue incontaminato
abbeverò il malefico polline.
Un incubo non nato ancora
mi porterà,
sull’aquilone rosso impazzito,
alle soglie del nulla.
L’amore, io ti dissi
— e la notte abbrividiva
nel bacio dell’alba —
l’amore è la più dolce
menzogna
che gli dei regalano
agli uomini.
L’amore — io vedevo
l’agonia dell’ultima stella —
l’amore, dicesti,
è il viatico offerto
dagli dei
agli uomini
che cominciano a morire
aprendo gli occhi
alla luce.
Come un Dio che, gaio
e cosciente,
sperimenti la sua forza
in un gioco crudele,
io so ridere d’ogni male
e uccidere in me
ogni residua pietà
per l’angoscia dei vinti.
Dissetarsi con la lagrima
sapida
del nemico stupido,
caduto nella lotta
ineguale,
è meglio che bere
alla fonte ricca
della mortificazione.
Sì, io sono uguale a Dio
e — come il Dio cosciente e crudele —
affilo l’arma bianca del mio riso
sulla cote dura e gelida
della mia anima pietrificata.
— Data sconosciuta
Volo di rondini intorno al campanile – Piatto in maiolica

Volo di rondini intorno al campanile – Piatto in maiolica

L’ala — che vinse il peso
della inerte materia
e liberò nell’azzurro
la rondine pazza di primavera —
l’ala, già saziata
alle fonti dell’infinito,
s’abbandona spezzata
sul corpicciolo anelante,
non più atto
ai garruli voli
e condannato
all’opaca terra.
Reduce dall’ebbrezza
dell’infinito
la rondine ferita
ha già dimenticato
l’azzurro e l’ansia
delle ascese nel sole;
goffa e pietosa
striscia e sussulta
ai morsi del dolore,
mentre con l’ala intatta
accenna al faticoso
tentativo di volo.
Poi si queta e giace,
vinta dai rinnovati strazi
ad ogni moto.
Solo il cuore batte
piccolo cuore senza voce,
e la mano pietosa
—umana—
come l’altra perversa che feriva,
ne accelera i palpiti
col terrore
di un nuovo
non conosciuto male.
— Data sconosciuta
CAPOGIRO
Il selciato duro e le stelle
s’affondano in rosse dissolvenze
e le case ruotano vorticose
in una sorta di gorgo
profondissimo e tetro.
Rintocchi di campana,
urli di sirene,
voci morbide e soffocate
nero e silenzio.
Uno, due colpi del cuore
alla gola,
luce di baleno e voci risorgenti
dal nulla di una notte già abolita.
Uno, due passi sul selciato
e l’uomo cammina — esitando —
dopo un breve gioco con la morte.
— Data sconosciuta
Stanotte un filo di malinconia
l’anima tiene sospesa ad una stella.
Lungh’esso sale lenta la malìa
d’un canto lene, una serenatella
come tra sonno e veglia a volte s’ode
nata da un sortilegio, una magia
d’amore, allor che il cuore rode vana
l’ansia di un sogno, allor che nelle vene
più forte il sangue preme e su le labbra
la nostalgia d’un bacio stilla fiele.
Lungh’esso il filo, su, sino alla stella
esile voce, voce di richiamo,
sale stanotte la serenatella.
Immota stella, non la mia canzone
muta su in cielo l’algido lucore
di te, non del cor mio l’empito immane
come d’onda incalzante che alle vene
s’infranga, muta il tuo lieve palpito.
Fredda rimani ed immutabilmente
trema il tuo cuore in cielo. Invano l’arso
mio labbro anela una fresca ed aulente
grazia di baci che mai furon dati.
Invano. Poi ché se in un solo bacio
vita o morte potessi tu donarmi,
tu, come stella che immutabilmente
splende su in cielo, tu, perdutamente,
reclino il capo, in questa notte illume,
al palpitar di mille stelle in cielo,
l’avaro labbro al bacio mio negare
no non sapresti. No. Ché miele e fiele
su la mia febbre distillar vorresti,
mentre con dita ansiose le tepenti
membra ed i seni accesi di lucori
d’alba e le sparse chiome carezzare
trepido ora potrei. Ma questo è sogno,
forse è malìa, non è che sortilegio
di notte illume. Ebben, nulla m’importa.
Se i tuoi baci son fiele io vo’ stanotte
morire. Vieni. Tu vinta ora ti stenda
sotto le stelle, nella notte illume.
Vieni. Se il labbro tuo dolce di miele
darmi non sa, ma tossico di baci, vieni —
che ancora in questa notte io possa
sovra te chino — disperatamente —
bere al tuo labbro
il bacio della morte.
— Data sconosciuta
Quel cielo corso di brividi
lunghi
di stelle tremule.
Quell’aria greve di profumi
salienti su da la terra in fiore.
La caldura affocata
rotta a tratti
dai soffi tenui
di vento che seco portavano
sentore di giardini
lontani sfiorati passando.
Tutto a la memoria torna.
Tutto. E te rivedo
e i tuoi occhi — ne l’ombra —
che cercavano i miei.
Ed i miei non risposero
al muto richiamo.
Lontano salia verso
il cielo una voce di canto.
Non era in fondo a l’anima
che una voce—
piccola voce —piana—
come udita nel sogno.
—Ricorda—
diceva — né vana
salì su dall’anima
al cuore.
Ché presto in un tuffo
violento risorse
la chiara visione dell’ieri
lontano
che una folata
improvvisa di vento
ruppe d’un tratto.
L’ultima nota suonò
come un pianto
sommesso di bimbo
strozzato da un groppo
più amaro.
Gli occhi miei non videro.
Era lontana l’anima.
Camminando a paro
a te, fresco fiore di viola,
pensavo a le morte cose
del mio passato.
Tu negli occhi leggesti.
Mi prendesti una mano
con la tua lieve
e l’altra mi ponesti — aperta —
su le pupille.
Su le labbra
sentii posarsi timorose e caste
le tue.
    Un attimo breve.
Poi la tua mano da le
palpebre chiuse mi togliesti.
Prima cosa ch’io vidi — il cielo —
Si prolungava l’attimo.
Poi mi volsi e ti vidi
come la cosa
che ti dona l’oblio
del tuo male e ti dissi —
in un gioco
breve di parole —
una menzogna bella.
Chinasti la fronte
sertata come per dionisiaca
sagra, e il bel corpo ti corse
un brivido.
Poi fu ancora il silenzio
e uno stupore muto
de le cose attorno.
    La notte dall’ore
rapide accolse fra i suoi
velari d’ombra la nostra
festa nuziale.
— Data sconosciuta
Mi han detto che in ogni stella
È chiuso un destino.
Io raccolsi in una via astrale
un destino non mio
e trascino in un mondo
sconosciuto
il peso di un’anima
e l’angoscia di pensieri
che non so riconoscere
e che ascolto con lo stupore
dei bimbi che tentano
di afferrare il senso
delle assurde storie
dei grandi.
— Data sconosciuta
Venditori di palloncini in piazza nel giorno di sant’Emidio – Schizzo a china


Venditori di palloncini in piazza nel giorno di sant’Emidio – Schizzo a china

l sole dei giorni di festa
e le fanfare lamentose
nelle sagre di paese
mi strappano al tempo
e mi rifanno fresco —
e giovane e facile
al gioco degli inganni —
il cuore.
— Data sconosciuta
   

   

Sulle labbra ferme
l’indice, in segno di croce,
chiede il silenzio.
Ascoltiamo
la terribilità sonora
del mare
che batte la riviera,
interminabilmente.
Tonfi di giganti
che si tuffano
cadenzano l’urlo del vento
e del pallore
della tua carne
s’illumina la notte.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”
   

   

Sono solo.
Non voglio dimenticare
la mia carne
legata alla carne dei figli,
il mio cuore saldato al cuore
della madre dei figli.
Non voglio dimenticare
e non posso ricordare.
Tento di ravvisare —
tra la folla loquace
e frivola —
l’uomo del paese di pietra
che mi racconti la storia
degli amici non accettati,
dei nemici
che accolsi sotto il segno
del perdono.
E sono solo.
Senza la tenera carne
dei figli
e il coraggioso cuore
della madre dei figli.
Nel mezzo di una inutile
folla loquace.
— Roma, marzo 1958                 da: “Nove stampe per dieci commenti”
   

   

Dammi il sole
di un tiepido pomeriggio
autunnale,
il sole che i vecchi infreddoliti
inseguono sulle panchine
al tramonto,
perché la notte s’allontani
ancora un poco
e s’allontani la paura
di morire.
— da: “Nove stampe per dieci commenti”