Il Ponte di Cecco (disegno a matita grassa)

Un maestro muratore, un poeta astrologo e il diavolo

Ascoli, Settembre (Il Giornale d’Italia, anno sconosciuto – circa 1940)

Un ponte negletto dagli uomini e dalla storia: un ponte sul quale non soltanto la leggenda e la fantasia popolare si sono gettate a fabbricare ipotesi vaghissime e certe, tutte però basate sull’assoluto errore cronologico che fa risalire la sua origine al XIII o al XIV secolo. Le stesse cervellotiche denominazioni di “ponte del diavolo” e “ponte di Cecco” confondono due diverse leggende in una delle quali si vuol ravvisare l’autore dell’opera nella persona di Cecco d’Ascoli, mentre dall’altra si parla di un tal Maestro Cecco Aprutino, non meglio identificato, e la cui esistenza risulta oltremodo dubbia. In ambedue le versioni si fa cenno a una presunta collaborazione del Diavolo, per cui siamo tenuti a credere che questo terzo personaggio rientri in qualche modo nella vicenda, voglia o non voglia la verità storica, vogliano o no i pavidi che sbirciano in tralice il ponte dimenticato, abbozzando un timido segno di croce ogni volta che si trovino in vista di esso. Sarà forse, a cagione del subsannante Signore degli Inferi che la fortuna del ponte si è volta al rapido declino, sì che, valido ancora, si trova da gran tempo privato della sua funzione e del suo grado e per esso transitano solo ormai, tra erbacce incolte, i lucertoloni e i gatti che non soffrono di superstizione. È dunque fuor di dubbio che Belzebù c’entri per qualche cosa nella costruzione di quest’opera. Tutto sta a vedere se all’epoca in cui esso sorse, il tenebroso Signore avesse questo nome o fosse conosciuto con l’altro di Plutone. Ma questo non ci pare che abbia eccessiva importanza; quello che invece interessa è il genere di contributo portato da Belzebù al costruttore, chiunque sia stato: pare infatti che consistesse in un incredibile accelerar di tempi impresso nel ritmo della costruzione che fu condotta a termine – a detta della leggenda – in una sola notte. E – non per voler fare una eccessiva a propaganda ai vantaggi del Diavolo – mi sembra che oggi una simile collaborazione sarebbe di notevole vantaggio in certi casi cronici di lentezza, e mi permetto di segnalare questo ottimo elemento a quanti nell’operare non mostrano di aver fretta e si fermano ad aspettare per via, a malgrado del motto Mussoliniano: “Chi si ferma è perduto”.

Il Ponte dunque — chiuso al traffico e sbarrato ad una delle sue testate dalla muraglia del forte Malatesta — non partecipa più alla vita cittadina e se ne sta appartato in vista del Ponte Maggiore popolato di pedoni i e veicoli. Fino a un secolo fa si disse che fosse stato costruito nel tardo medioevo e si deve allo storico Giambattista Carducci la chiara dimostrazione della sua origine romana. Niente Cecco dunque, né Ascolano né Aprutino e niente Belzebù, ma piuttosto Plutone. Esclusa perciò l’arte magica del poeta astrologo; esclusa del pari quella del Mastro Architetto d’Abruzzo, rimane un’opera eccellente, di epoca romana inconfondibilmente espressa nella linearità sobria e solenne e nelle caratteristiche costruttive, acutamente analizzate dal Carducci. L’opera muraria isodoma dai conci smussati nelle congiunture e grezzi nelle facce esterne, gli archi impostati alquanto indietro dall’appiombo dei piloni e i cunei giganteschi (metri 1,58) alternati a conci per testa usati nel voltare gli archi, l’inimitabile elegante possanza delle forme e la identità di quest’opera con altre della medesima presunta epoca, confermano senza possibilità di dubbi l’ipotesi del Carducci, ribadita dai più autorevoli archeologi italiani. Al fantasioso popolo spiacerà certamente la considerazione e riterrà utile insistere nel presentare la cosa col sensetto del diabolico e misterioso. Continuerà a confondere due Cecchi in eterna contesa per una usurpata paternità, arbitro ed istigatore, maligno e tralignante messer Belzebù dalla rossa cappa. L’odore di zolfo è sempre solleticante alle nari e convince assai più che l’opus quadratum dei romani. Se dici al popolo che su quel ponte passava la consolare Salaria e ti affanni a descrivere un corteggio di milizie guidate da un Console dalla lorica corruscante d’oro, il popolo ravviserà nel Console non già Strabone, ma l’Ascolano Ventidio Basso, come l’ha visto nel telone del massimo teatro: trionfatore magnifico, nella declamatoria posa della pittura ottocentesca.

Ma accanto alla traccia del coturno romano vedrà sempre l’orma profonda e Biforcuta di Satana e invano ti affanneresti a dimostrarne l’origine caprigna. Tutto al più, sacrificherà i due Cecchi all’idea di Ventidio Basso e accomunerà in un nuovo confusionario connubio l’Ascolano guerriero, tribuno, console e il re dell’Ade. E seguiterà a tracciar segni di croce nell’aria e a favoleggiare di un ponte creato in una notte mescolando stavolta e Consoli e Malatesta e Demoni, incurante di logica e di storia, anche se nella storia vive ed opera col cuore, con l’armi e con la Fede.